
E non mi scuote il punto di domanda:
che il peccato sia un dono o una colpa
è il dilemma del folle,
che l’amore sia un fiume
cui manca la foce – o la fonte –
è l’inganno del mite.
Questo mio sopravvivermi invece
non trova risposta
tra la polvere e i piatti di carta,
nell’istinto dell’acqua e del sonno.
E si nutre – spiraglio taciuto –
del tiepido gelo
d’esser qui, ma per sbaglio.
*
In fondo è l’attesa perenne
che sia primavera,
è il passo tremante che segue,
fuggendo, la stasi.
Ma tra i colpi del vero sorprende
-premura inaudita-
che di là dal tempo e dai luoghi
noi siamo reciproca cura.
Non c’è tempo che il fiato scandisca,
il domani è la terra dei folli
e io l’ho sorpreso
nello scendere scale già scese
di un autunno che ogni anno si inverna.
Mentre lento dal ventre di Siena
rifugge un istante,
non attendo che un’ora trascorsa.
*
Fermarsi alla vita – per altri –
è licenza d’eterno:
tu sola persisti a contarmi le ciglia del cielo,
a studiare l’accordo silente
del fiore che s’apre.
Direbbero – e in tanti – che il nostro
è un insano delirio,
questo spingerci al molto nel nulla,
ma l’oltre è un vantaggio che giova
a noi soli, a chi sa.
*
Dal muro di vetro del Melùha
una luce mi sveglia in assalto.
È Mumbai che risorge dal lago
e protesta la morte con artigli di sfera rovente,
con fauci di fango.
È Mumbai con il crine d’avorio,
dal dorso di spezia,
e nell’algebra del suo squilibrio
scopro in me uno scarto di vita.
*
La coltre perlacea di nebbia
che inganna il mio occhio
è ancora la stessa
che cuce un ricamo di nubi
alla stoffa del lago
di là dai cipressi del porto.
L’autunno è passato di qui
seminando abbandono.
Col silenzio atterrito
in cui si risveglia
la sala da ballo
nel giorno che segue la festa,
Gardone – smarrita – mi stringe,
si scopre trascorsa.
È in questo sconcerto che freme il mio urlo di vita.
E intanto – ma è vana protesta – un telefono squilla
dai vetri serrati
di un gelido alloggio deserto.
*
Eppure nei recessi del pensiero
dove mi è ancora dato di tradirmi,
l’impermanenza annoda le radici
a superfici incerte,
al provvisorio.
Il numero di chi non ha più voce
è ancora – inerte –
nella rubrica dei vivi,
la polvere insegue l’assenza
e nel cassetto dell’infanzia
trattengo un’ ultima biglia.
Gerardo Masuccio è nato a Battipaglia, in provincia di Salerno, nel 1991. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza nella limitrofa Olevano sul Tusciano. Dopo gli studi classici a Eboli, nel 2010 si è trasferito a Milano per frequentare l’Università Bocconi. Ha conseguito due lauree, in Giurisprudenza e in Economia, con tesi sul diritto d’autore e sull’editoria libraria. Negli anni universitari ha fondato il salotto letterario degli studenti. Dal 2017 lavora per Bompiani e ne cura la collana CapoVersi. È inoltre redattore delle pagine digitali di Atelier. La sua poesia è apparsa in antologie, riviste, siti specializzati e opuscoli non venali. “Fin qui visse un uomo” è la sua opera prima.
di Giuseppe Rigotti
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